Dottoressa Ducci, in che modo lavora il Ser.T. all’interno delle Carceri Genovesi?
A Genova si è scelto di avere un presidio all’interno del carcere. In questo modo si permette agli operatori di vivere maggiormente la quotidianità del carcere. Non è sempre facile; da una parte è un vantaggio avere un maggior contatto fra gli operatori, ma l’attività deve essere doppia: una sul paziente e l’altra sul “contesto carcere”. La difficoltà di mettere in rete le varie forze e la comunicazione all’interno del carcere è sempre presente.
Come e quando interviene il Ser.T. nel percorso del detenuto tossicodipendente?
I pazienti ci vengono segnalati dal medico del Ministero di Giustizia dopo la visita d’ingresso. Il medico del Ser.T. fa la diagnosi e prescrive la terapia, mantenendo un contatto con il Ser.T. territoriale in modo da assicurare una continuità di trattamento. Contemporaneamente anche lo psicologo interviene con la prima visita specifica psicologica.
Nel caso l’utente non sia seguito da un Ser.T. territoriale?
Cerchiamo di stabilire noi un contatto. Bisogna tenere presente che la persona che noi ci troviamo davanti non viene di sua spontanea volontà, e non ha posto una specifica richiesta di cura. Certo, nella maggior parte dei casi è dentro per problemi correlati al suo stato di tossicodipendenza, ma non è lui che sceglie di venire da noi (Ser.T) per avere assistenza. Il nostro obiettivo è quindi quello di “agganciare il paziente” al trattamento, di cominciare un percorso. L’urgenza a questo livello è quella di affrontare le problematiche relative all’astinenza dalla sostanza, e questo per due motivi: da un parte difatti, fa parte del codice deontologico del medico affrontare il dolore del paziente e farlo passare, ma d’altra parte, se il paziente si sente seguito e sostenuto, è più probabile che decida di continuare la terapia anche all’esterno del carcere.
Il secondo livello di assistenza?
Affrontate le problematiche base del dolore e dell’astinenza, ci sono alcuni progetti specifici in un’ottica psico-socioriabilitativa, rivolti a detenuti tossicodipendenti HIV+ presso il Centro Clinico o la sezione a Custodia Attenuata, ponte fra il carcere e le comunità esterne.
Quali sono le peculiarità del trattamento in carcere?
Principalmente il fatto che, se dal punto di vista normativo il carcere deve avere oltre la sicurezza il trattamento, in realtà nella pratica il mandato della sicurezza acquista maggior peso.
Le persone entrano dentro perché hanno commesso un reato, qualcosa di sbagliato lo hanno fatto, e l’esigenza del controllo a volte prende il sopravvento: se tu stai male e vai in una clinica privata, oltre a curarti ti chiedono se hai bisogni extra, in carcere ci si chiede perchè tu mostri di star male, cosa vuoi ottenere, se non hai secondi fini.... ecco perché è fondamentale la comunicazione fra tutti.
Altre problematiche?
Vi sono quelle di tipo clinico. Nel contesto ambulatoriale il paziente arriva autonomamente. Qui il primo pensiero è naturalmente quello di uscire dal carcere... Quindi dobbiamo prevederne l’uscita nel modo più coerente con il suo stato di salute, in modo che non vi siano frustrazioni e quindi ricadute, anche se nei primi sei mesi la percentuale di chi rientra è comunque alta.
Dalle statistiche pubblicate sui giornali, circa la metà della popolazione è straniera, e di questi molti sono senza permesso di soggiorno. Vi è uniformità nel trattamento?
Anche qui ci sono delle grandi difficoltà. Secondo la legge Jervolino/Vassalli ogni detenuto con pena inferiore ai quattro anni può richiedere misure alternative alla detenzione. Il trattamento terapeutico e l’assistenza sanitaria inoltre sono garantiti per tutti. Con la Bossi/Fini invece, vengono poste alcune condizioni, il trattamento è subordinato alla pena da scontare e alla successiva espulsione. Questo vuol dire che se si indirizza una persona in comunità studiando un percorso personalizzato di un anno e mezzo, se il detenuto ha una pena inferiore, al termine della pena va espulsa anche se non ha terminato il trattamento. E viceversa: la comunità studia un percorso di un anno, il detenuto ha da scontare tre anni, al termine del primo anno questa persona non avrà la possibilità di essere seguito ambulatorialmente perchè non ha una casa, non potrà fare un inserimento lavorativo, perchè irregolare.
Quali necessità emergono nel lavoro con extracomunitari irregolari?
Personalmente sento l’esigenza di un servizio ad hoc che si occupi di loro. Non per escluderli dai normali percorsi, ma per dare una risposta ad esigenze particolari, e fare anche in maniera che, usciti dal carcere, possano continuare il loro percorso non più da costretti, ma volontariamente. Gli stranieri affrontano le problematiche relative alla tossicodipendenza solo in carcere. Può essere utile, ma non certamente sufficiente.
Poi, bisogna tenere conto che un extracomunitario che sta per venire espulso dall’Italia ha bisogno di essere messo in condizione di acquisire della capacità professionali. In questo modo il rientro in patria può essere dignitoso, non di chi ha fallito, e si ripresenta frustrato davanti alla famiglia, ma di chi può costruirsi una vita autonoma portandosi dietro un’esperienza che può dare i suoi frutti.
Che giudizio dà sulle attività del Ser.T. in carcere?
La valutazione complessiva è buona e le offerte sono ben diversificate, in funzione delle risorse che abbiamo.
(Ottobre 2005)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento