Roberto Martinelli, assistente capo di Polizia Penitenziaria da vent’anni, è il segretario generale aggiunto del SAPPE, primo sindacato di Polizia Penitenziaria, con 12.000 iscritti.
Ci confrontiamo con lui per capire quali siano i problemi che affrontano quotidianamente gli agenti di Polizia Penitenziaria nello svolgimento del loro lavoro e ascoltiamo alcune proposte avanzate dal suo Sindacato.
Il carcere, lo abbiamo già notato, è un pianeta chiuso. La popolazione civile non sa bene cosa vi accade, chi ci stia e come ci si lavori.
Questa legge vale anche per le 40.000 persone con il basco azzurro della Polizia Penitenziaria,
che ogni mattina vi entrano e vi passano gran parte della propria giornata a contatto con situazioni di forte disagio, in condizioni lavorative tutt’altro che facili: si lavora spesso su turni di otto ore, e fino a prima dell’indulto un agente poteva restare anche solo con cento, centotrenta detenuti, gestendo anche problemi relazionali e situazioni di crisi. Molto spesso poi, dopo otto ore passate in carcere, si va in caserma, poiché le necessità di organico richiedono trasferimenti a più di seicento, ottocento, mille chilometri dalle città di origine. In queste condizioni, ci sono pochi stimoli a andarsene in giro in città poco conosciute e a spendere soldi che dovrebbero servire alla propria famiglia.
Il disagio e la sofferenza, il rischio di burn-out – lo stress lavorativo di cui spesso si parla per gli operatori che lavorano nel disagio - sono evidenti e palpabili.
La formazione è comunque parziale, perché in aula è difficile presentare le difficoltà pratiche che si incontrano quotidianamente.
Eppure ci sono delle motivazioni che permettono di affrontare il proprio lavoro con competenza ed attenzione: Roberto Martinelli ci racconta dove vengono le gratificazioni e l’entusiasmo: “Quando vieni assunto, fai un corso di formazione ‘esterno’, ma il grosso del lavoro avviene quando cominci a entrare nel carcere, e sei sostenuto dai tuoi colleghi, in particolare quelli con più anzianità di servizio”. Lo scollamento fra teoria e realtà è evidente, ed affrontabile solo grazie al forte spirito di corpo, che fa sì che i colleghi più anziani si occupino dei nuovi arrivati istruendoli e sostenendoli nelle diverse necessità. “Le gratificazioni ci sono”, prosegue Martinelli, “e si basano sulla consapevolezza di far parte di un Corpo molto importante per lo Stato, cui spetta uno dei compiti più difficili”.
Le difficoltà maggiori risiedono nella lontananza da casa di cui soffrono molti agenti, nella continua carenza d’organico (sì, anche dopo l’indulto!) che costringe a ridurre sempre più i momenti di formazione, quando previsti, ad allungare i turni e a lavorare da soli. E’ anche un lavoro pericoloso, chi lo compie sa di essere identificato come “rappresentante dello Stato” prima che come persona, e il rischio di venire colpito in quanto simbolo esiste sempre. Le minacce sono ancora abbastanza comuni.
Concentrando l’attenzione sulla situazione genovese, Marassi è priva di serie strutture ricreative per gli agenti e all’interno non vi sono biblioteche o spazi destinati.
Chiediamo a Martinelli come vede il carcere oggi, come è cambiato rispetto a trent’anni fa, e come vede il suo futuro. Un dibattito sul carcere che vogliamo non può prescindere dal confronto con chi ci lavora tutti i giorni, e Martinelli ci propone riflessioni attente e precise, avanzando ipotesi e proposte attuabili a livello locale e nazionale.
“Il carcere rispetto a trent’anni fa è cambiato profondamente, ci sono tre categorie di individui che prima degli anni novanta non esistevano: gli extracomunitari, i tossicodipendenti e sieropositivi-malati di HIV, insomma, i rappresentanti del nuovo disagio sociale, e quel che è peggio, è che negli ultimi anni le tre classi si vanno ritrovando sempre più nella stessa persona”.
Occorre ripensare al ruolo del carcere e alle modalità di attuazione della pena: Martinelli introduce una proposta moderna, e ne articola le condizioni: “Secondo noi del SAPPE, il carcere dovrebbe essere destinato solo ai veri delinquenti: chi si è macchiato di reati di mafia, assassini, chi ha commesso fatti di reale gravità. Per tutti gli altri, non è altro che una scuola di criminalità, dove vengono a conoscere ancora meglio legami e regole della microcriminalità cittadina”. Egli stesso concorda con chi vede il carcere oggi come una vera discarica sociale. Questo non vuol dire però che se il disagio sociale finisce per evolversi in un reato, questo non debba essere punito con fermezza: “Nella Legge Bossi-Fini vi è un articolo, poco attuato, che prevede il lavoro socialmente utile, non pagato, come pena per reati di lieve entità, magari anche solo quelli con pene sotto l’anno, in alternativa al carcere: la proposta del SAPPE è questa, ripensare la pena e la sua attuazione, e contemporaneamente ripensare il ruolo della Polizia Penitenziaria. Creare due differenti settori, uno destinato al mantenimento dell’ordine interno, ed un secondo, nuovo, per la gestione e l’organizzazione della pena per chi in carcere , considerata l’esiguità delle pena, sarebbe preferibile non entrasse.
Alcuni di questi compiti, come la verifica della presenza per chi ha l’obbligo di firma attualmente la effettuano i Carabinieri, è necessario studiare una collaborazione con le varie forze di Polizia, ma la Polizia Penitenziaria può gestire lo svolgimento della pena dal principio alla fine, collaborando anche con assistenti sociali e associazioni del terzo settore e del volontariato dove i condannati a pene lievi potrebbero lavorare per ripagare il danno alla società”.
Anche il ruolo della stesso Corpo di Polizia Penitenziaria affronterebbe la sfida di una nuova ridefinizione dei compiti e dei ruoli, e contribuirebbe a rendere meno nascosto il mondo carcerario, lavorando in mezzo alla gente, nella città.
Accanto al potenziamento dell’Area Penale Esterna, il SAPPE ha altre proposte per migliorare il lavoro degli Agenti di Polizia Penitenziaria: innanzi tutto, la possibilità di effettuare concorsi su base regionale che garantirebbe una maggior vicinanza a casa, riducendo notevolmente i problemi dei trasfertisti. Poi bisogna aumentare il coinvolgimento della popolazione cittadina, che si renda conto che i problemi del carcere sono i problemi di tutta la cittadinanza (basta pensare all’ “emergenza sicurezza” evocata nei momenti di crisi), e una maggiore attenzione da parte degli enti locali.
Riguardo alla situazione particolare genovese, sarebbe auspicabile una collaborazione con il Comune, per una migliore qualità della vita degli agenti, per avere degli alloggi esterni, magari per quegli agenti che desiderano ricongiungersi alla propria famiglia, in zone residenziali adatte.
Dal Comune ci si aspetta anche il rispetto verso chi fa un lavoro non facile, anche se poco visibile, dentro le quattro mura del carcere, a partire dalle piccole cose; ci facciamo noi stessi promotori di una richiesta al futuro sindaco di Genova: la definizione di una gestione del piazzale antistante il Carcere di Marassi volta al rispetto di chi vi lavora, e vi trova carcasse di auto abbandonate da mesi che nessuno porta via, e lo studio di una soluzione per la tragicomica situazione che si ripresenta due ore prima di ogni partita di calcio, quando agenti e lavoratori dall’interno del Carcere devono uscire a cercare un nuovo parcheggio fuori dalla zona a traffico limitato, per lasciare il piazzale disponibile ai pullman delle tifoserie esterne. Sarebbe un gesto di attenzione e di riconoscimento dell’importanza del lavoro che si sta svolgendo all’interno del carcere, nell’interesse di tutta la città.
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Gli agenti di polizia penitenziaria sono in Italia 42.642 (Dati Dipartimento Amm.ne Penitenziaria- Ministero della Giustizia). Sono uomini (39.337) e donne (3.305), divisi nelle sezioni detentive maschili e femminili.
Lavorano in carcere su turni di ventiquattro ore: sono le persone maggiormente a contatto con i detenuti. Per essere agente di polizia penitenziaria occorre un diploma di istruzione secondaria di primo grado, ma il numero dei laureati è in costante crescita.
Superata una selezione nazionale si frequenta un corso di formazione di 12 mesi. A contratto, sono previste dodici giornate di formazione ogni anno, sei sull’uso delle armi e sugli aggiornamenti tecnici, altre sei su compiti differenti e definiti in base alle necessità.
Le selezioni sono nazionali: gli agenti vengono mandati nelle diverse carceri a seconda delle esigenze. Per questo motivo, sono numerosi gli agenti che lavorano a distanza dalla proprie residenze, vivendo in caserme vicino al luogo di lavoro, e facendo per anni i pendolari su lunghe distanze.
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